Ricordate gli operai della INNSE che in un recente articolo abbiamo incontrato mentre presidiavano la fabbrica in via Rubattino 81?
Poiché l’azienda ha chiuso per ferie loro hanno tolto il presidio ma ritorneranno da lunedì prossimo dalle 07.00 sino alle 13.00.
Nel nostro piccolo abbiamo cercato di colmare le lacune che avevamo rispetto a quanto avevano e stanno facendo – sotto la testata abbiamo cominciato a raccogliere un po’ di documentazione (dal 2008 al 2017) INNSE via Rubattino.
Ma oggi vi presentiamo una interessante intervista, realizzata da Giuseppe Arena, nel 2009, dal titolo non proprio accattivante: Intervista a Vincenzo Acerenza operaio INNSE
…Dunque la INNSE ha riaperto a partire dal 12 ottobre e siete tornati al lavoro. Una bella vittoria?
Il 15 ottobre siamo stati tutti riassunti da Camozzi il nuovo padrone. Un primo gruppo di operai ha ripreso la produzione da subito, gli altri in cassa integrazione e riprenderanno gradualmente secondo un piano.
Una vittoria? Da un lato una sfolgorante vittoria, dall’altro un risultato amaro.
Perché un risultato amaro?
Il lavoro è stato mitizzato, si confonde il lavoro come attività genericamente umana con il lavoro in questa società ed in particolare il lavoro operaio. Noi torneremo ad alzarci all’alba, sui turni, al caldo ed al freddo, attaccati ad una macchina, stando ben attenti a portare a casa la pelle, sotto il controllo di un capo e per soli, se ci si arriva, 1300 euro al mese.
Però parli anche di sfolgorante vittoria.
La scelta del padrone Genta era definitiva, la fabbrica, la INNSE, doveva essere chiusa. I suoi interessi e quelli dell’immobiliare, proprietaria del terreno, passavano attraverso lo smantellamento dell’officina. Fummo posti a maggio del 2008 di fronte alla scelta: o trattare la chiusura con i soliti ammortizzatori sociali oppure tentare in tutti i modi di non farla chiudere.Decidemmo per questa seconda opzione. Oltre tutto Genta aveva cominciato male buttandoci fuori dall’officina con un telegramma e da un giorno all’altro. La prima risposta fu quella di forzare subito la mano, entrammo in fabbrica e riprendemmo la produzione. Avevamo ancora delle commesse da finire.
Un’autogestione?
Anche qui non vogliamo lanciare segnali distorti come quello della possibilità, in un sistema di mercato, di una gestione operaia delle fabbriche. Si finirebbe comunque a fare i padroni di noi stessi, costringendoci reciprocamente a fare fronte alle necessità del mercato, che ha la sua ragione di esistenza nella produzione per il profitto. Noi abbiamo voluto dimostrare che la fabbrica funzionava anche contro la volontà del padrone che parlava di mancanza di lavoro, macchinario obsoleto. Alla sua volontà di chiudere abbiamo opposto la realtà di una fabbrica in funzione e non ci sembra poco.
Conosco la storia. A settembre 2008 la polizia vi mise fuori dallo stabilimento e da lì cominciaste il presidio. Cosa vi spinse a questa decisione?
Il fatto che non è stato rilevato è che noi fummo licenziati il 22 agosto 2008, al termine dei 75 giorni della procedura di mobilità. Il passaggio più critico di tutte le lotte contro i licenziamenti è la fine della procedura, ci si trova in Regione e il ricatto è terribile, tutti spingono per trovare soluzioni con i soliti ammortizzatori e fare il mancato accordo vuol dire essere in mobilità senza incentivi. Noi mandammo all’incontro solo la segretaria provinciale della FIOM che firmò il mancato accordo. Il ricatto più terribile venne superato di slancio, ci avrebbero licenziato, messi in mobilità ma la fabbrica non avrebbero potuto smontarla col nostro consenso.
Il controllo della fabbrica per voi era essenziale?
Il perno centrale della lotta. Discese da una strana, nuova concezione. Il macchinario è veramente del padrone? Formalmente sicuramente sì, ma lo è sostanzialmente? Gli operai potrebbero pensare che in qualche modo è stato ammortizzato col loro lavoro? Se lo pensano e impediscono al padrone di portarlo via, di smontarlo commettono forse un sacrilegio? L’avvocato del padrone salta su tutte le furie, corre dal magistrato, rivendica il diritto alla proprietà privata che 49 operai sbandati di via Rubattino hanno il coraggio di mettere in discussione. Per 17 mesi giorno e notte la fabbrica è tenuta sotto sorveglianza, c’è da riempire un libro dei tentativi di Genta per entrare, iniziare a smontare le macchine, prendersi la sua” roba. Ogni volta scontri con le forze dell’ordine, il 10 febbraio manganellate, la portineria di via Rubattino ha visto schierati più polizia e carabinieri in quest’ultimo anno e mezzo di quanti ne abbia visti dalla fine della guerra ad oggi.
Ci puoi in poche righe raccontare il ruolo delle istituzioni in questa vicenda?
Il 2 agosto siamo completamente soli, Genta sta smontando il macchinario, la fabbrica è circondata da circa trecento poliziotti in tenuta antisommossa, la Magistratura milanese ha dato il via allo smantellamento, Prefetto e Questura avevano deciso il giorno e l’ora, questa è la verità.
Per più di un anno abbiamo girato tutti i tavoli istituzionali, la Provincia e la Regione, il Ministero, quasi quaranta incontri e tutti inconcludenti. Il piccolo padrone di periferia dettava legge, non voleva vendere a nessuno la fabbrica, faceva scappare i possibili acquirenti per i prezzi e le condizioni che buttava sul tavolo, lo fiancheggiava la AEDES (l’immobiliare n.d.r.) che voleva libera l’area. Ebbene le istituzioni si sono sempre limitate a registrare questi fatti, nessuna scelta di modificarli, di imporre altre scelte, la volontà del padrone, anche il più sputtanato, detta legge. La politica del lavoro? Una chimera, erano disposti tutti a darci qualche briciola a condizione che mollavamo la fabbrica, la politica del lavoro si manifestava come politica dell’assistenza ai poveri.
La decisione di andare sulla gru è stata un atto disperato?
Nemmeno per sogno, avevamo assoluto bisogno di fermare lo smontaggio delle macchine, ogni ora che passava era un passo verso la sconfitta definitiva. Decidiamo, dopo due giorni di inutili tentativi di fermare Genta per via istituzionale, di entrare in fabbrica. Aggiriamo il blocco delle forze dell’ordine, passando per vie che conoscevamo solo noi e ci ritroviamo al centro dell’officina. Davanti ai mercenari che stavano smontando ed alla Digos che non ha capito subito che cosa stesse succedendo abbiamo puntato dritto alla scala della gru. In pochi minuti eravamo su gridando come dei matti contro Genta, contro lo smontaggio delle macchine. In questo casino indiavolato i dirigenti della polizia hanno pensato bene di sospendere il lavoro di smontaggio, allontanare Genta dall’officina. Il primo risultato era raggiunto, la fabbrica era salva.
Pensavate ad una soluzione della questione dell’acquirente in così poco tempo?
Noi, fin dall’inizio abbiamo cercato un industriale che comprasse INNSE e proseguisse l’attività, ma lo abbiamo cercato rovesciando il problema. Noi la fabbrica non l’avremmo fatta chiudere, noi i licenziamenti non li avremmo accettati, né contrattati per nessuna ragione, per 17 mesi abbiamo tenuto duro su questi obiettivi senza dare segni di cedimento. Quando a luglio ci hanno, per l’ennesima volta, proposto la ricollocazione li abbiamo mandati a quel paese. Trovare la soluzione del problema toccava a loro, noi eravamo un problema da risolvere facendo ripartire INNSE e nel momento in cui un imprenditore vero si è fatto avanti gli hanno fatto, tutti, ponti d’oro. E se non si fosse trovato? Dovevano schiacciarci con la forza, usare l’esercito per demolire una fabbrica nella crisi: quale segnale sarebbe arrivato a tutta la società ed agli operai per primi? Avrebbero pagato un prezzo politico molto, molto alto. Perciò diciamo: resistete alla chiusura delle fabbriche, che ci sia o no la possibilità di un nuovo acquirente poco importa, l’importante è mettere in luce che i padroni e la loro gestione dell’industria hanno fatto il loro tempo e la crisi ne è la dimostrazione più lampante.
Ma raccontaci come è stato possibile gestire una lotta del genere, per così lungo tempo e con questi risultati.
Il partito operaio alla INNSE: alla INNSE si è cementata una comunità operaia che ha la fisionomia di un partito informale, gli operai si sono uniti come parte, indipendente da tutti. Sul versante sindacale hanno imposto il loro punto di vista nella gestione e conduzione della lotta, sul versante politico hanno segnato una indipendenza da tutti i partiti esistenti, anche quelli che si sono dichiarati più attenti sostenitori.
Gli operai hanno bisogno di ben altre prospettive per emanciparsi dalla loro condizione, hanno soprattutto bisogno di fare in proprio anche politicamente e il partito operaio della INNSE lo ha dimostrato gestendo direttamente senza intermediari i rapporti con le istituzioni, con lo Stato, con la stampa.
Il fatto veramente nuovo è che il “settarismo operaio” che ci distingue si è rivelato capace di mobilitare tante forze e tanti militanti a sostegno della lotta.
Funziona così, se gli operai dimostrano di saper tenere testa ai padroni trovano sostenitori ovunque, viceversa se gli operai pensano di esser forti perché qualcuno parla a loro favore fanno un errore che pagano caro.
Pensate a quante fabbriche chiudono sommerse di dichiarazioni pompose di sindaci, assessori, dirigenti sindacali e sovversivi chiacchieroni per capire perché gli operai della INNSE hanno prima di tutto fatto affidamento sulle loro forze.
Ed hanno ottenuto il risultato che volevano.
GIU’ LE MANI DALLA INNSE.