7 gennaio PELLE PER PELLE di Don Verzé

Pelle-per-PellewPer i tipi di Mondadori, una decina di anni fa usciva un libro di 156 pagine che, forse, nonostante alla presentazione del libro, a Roma, fossero presenti Cesare Geronzi, l’ex presidente Francesco Cossiga e Alfio Marchini, attuale candidato sindaco di Roma, non è stato un grande successo editoriale considerato che viene oggi venduto, su internet, con lo sconto del 55%. (Lo si può leggere gratuitamente richiedendolo anche nelle biblioteche comunali).
donE’ una biografia su Don Verzé scritta da Giorgio Gandiola.
Il motivo di interesse che ci ha spinto a leggerlo deriva dal fatto che Don Verzé è stato, sino al 1957, per 7 anni, il direttore dell’Opera Don Calabria a Cimiano, ovvero un protagonista della ns. Zona.
Dopo avere letto il libro tutto d’un fiato non ce la siamo sentita di farne un riassunto, anche perché ci saremmo dovuti confrontare con il ritratto agiografico fatto da Filippo Facci!
L’incipit è folgorante. Oggi è stata una giornata infernale: prima sono andato in Vaticano… Ma tutto il libro è sulfureo.
Ci limitiamo a riportarne un capitolo quello in cui vengono ricordati i primi passi di don Verzé “imprenditore“. Passi compiuti dopo essere stato allontanato da Cimiano.
Come si sia conclusa la parabola di don Verzè è noto.

VERZEw “La casa di riposo per anziani funziona. Per entrare, alcuni ospiti sono pronti a cedere i propri beni come vitalizio. E don Verzé scopre suo malgrado le due facce di questa medaglia.
Il primo vitalizio l’ho accettato da una signora di settantadue anni. Mi ha dato un milione per una camera con bagno ed è morta a centodieci anni. Io andavo a trovarla e lei mi diceva: “Don Luigi, preghi che il Signore mi porti via. Le costo trop­po”. E invece era la dimostrazione che la Provvidenza esiste.» Ogni tanto, però, la Provvidenza chiede prove di affidabi­lità. E don Luigi si ritrova in un’aula di tribunale. È la prima volta, non sarà certo l’ultima. La nipote di una signora che ce­de all’opera, come vitalizio, una casa in via Carissimi denun­cia il prete per circonvenzione d’incapace. La parente sostiene che don Verzé avrebbe fatto firmare alla donna (con problemi di vista) il contratto al buio. Lei vuole l’abitazione e in primo grado il giudice le dà ragione. Ma in appello don Luigi viene assolto con una sentenza che è una sorta di canonizzazione. Morale: le case albergo per anziani diventano due. Mentre l’O­pera s’ingrandisce, sul nome di don Luigi Verzé si abbattono i primi fulmini, i primi veleni. E alla curia non sembra vero di agitare il velo nero davanti a questo prete scomodo e ribelle.
Tutto nasce nel convento delle suore amministrato da don Luigi, nel periodo delle elezioni per la rinomina di suor Agnese a madre superiora. Una donna, apparentemente amica d’una suora, mal sopporta quel prete. A ciò si aggiunge il fatto che don Luigi propone alla congregazione di rifon­darsi per favorire la realizzazione dei suoi ideali religioso­ ospedalieri. Dal convento partono lettere anonime, destina­zione arcivescovado, allo scopo di far trasferire don Luigi il più lontano possibile. Infine entra in scena anche un sicario assoldato da quella donna per uccidere don Verzé, che viene a conoscenza della trama da una registrazione in. cui si parla del prezzo per il lavoro del killer. Conosciuto don Luigi, il si­cario rivela tutto all’arcivescovo, abbandona l’incarico e in lacrime implora il perdono.
Scottato dall’esperienza, don Luigi lascia le suore e rinun­cia per sempre a integrarle nell’Opera. Da questo momento uno dei suoi obiettivi sarà far crescere operatori laici per svolgere funzioni di infermieri, medici, dirigenti.
Il 27 luglio 1961 si reca da Montini per renderlo partecipe dei progressi dell’Opera: due case albergo con 250 anziani e l’orfanotrofio modello alle porte di Como. Entra in arcivesco­vado ben sapendo che il vento della curia soffia impetuoso contro di lui. Lì sono in molti a considerarlo un prete ma­neggione, un affarista col pallino dell’albergatore. L’establish­ment ecclesiastico non sopporta il suo dinamismo, la sua ca­pacità di iniziativa, la sua concretezza. L’incardinazione a Milano diventa sempre più difficile. Davanti a Montini il sacerdote capisce che dovrà combattere una battaglia molto lun­ga contro un nemico potente e impalpabile. L’arcivescovo gli mostra una cartellina con cinque «quaestiones» alle quali dovrà rispondere per iscritto. Le domande celano accuse pesantissi­me. Risponde al vero che è entrato nel reparto riservato alle suore? Risponde al vero che andava in automobili e con donne e suore? Risponde al vero che rincasava molto tardi in compa­gnia di donne? Lui che non osava neppure guardare il volto di sua madre. Ma le ultime due «quaestiones» sono le più insi­nuanti: «Ha portato turbamento e divisione tra le suore? Si è intromesso nell’andamento materiale della congregazione?».
Sfumature truffaldine; quella vicenda rischia di minare la sua credibilità. Don Luigi chiede a Montini un confronto con chi lo sta accusando. Non gli viene concesso. Anche l’arcivescovo comincia ad allontanarsi da lui. E alla domanda: «Non si ricorda più di avermi incoraggiato per primo nella mia Ope­ra?», si sente rispondere: «Tutto è nato da quel mio primo erro­re». Secondo don Luigi, Montini è condizionato dalla curia perché l’odio curiale è anche peggiore di quello delle donne». E perché tutti i prelati ricordano il rigore con cui Verzé aveva risposto «no» alla richiesta della curia di riservare due posti ad altrettanti suoi rappresentanti nel consiglio d’amministrazio­ne dell’Opera San Romanello. «L’Opera è e dev’essere laica», aveva detto. Certi dinieghi si pagano.
Don Luigi si ritrova in mezzo a una strada. La curia gli to­glie l’incarico di cappellano alla clinica La Madonnina e quel­ lo di supervisore alla costruzione di nuovi asili; interviene per fargli annullare il mutuo di 1,5 miliardi della Cariplo già ga­rantito dal comune di Milano per l’Opera. E gli taglia persino il contributo annuale per i bambini dell’orfanotrofio di San Fermo. La richiesta di aprire al culto la cappella realizzata nel­la casa per anziani di piazza Appennini viene bocciata. Ri­schia di non poter più celebrare la messa e da qui nasce la diceria che sia stato «sospeso a divinis».
Lui ricomincia a lavorare ed è costretto a notare quanto sia abissale la differenza fra la sua sensibilità e quella della cu­ria. Una sera la contessa Bassetti lo chiama: in una famiglia amica è nato un bambino, ma il padre è illegittimo. Don Lui­gi riceve l’uomo e gli fa promettere che metterà le cose a posto. In virtù di quella dichiarazione battezza il neonato. Qualche giorno dopo quel padre muore in moto, sul circuito di Monza. Un prelato in curia gli nega i funerali religiosi per il peccato mortale d’aver vissuto e procreato fuori dal matrimonio. Tutto ciò a norma di diritto canonico. Don Verzé, che ha ascoltato l’impegno del defunto, si presenta a Montini al­l’uscita da una cerimonia, e gli spiega il retroscena. Il cardi­nale si rivolge al prelato che aveva reiterato il suo no: «Senta ciò che dice don Verzé. Questo non basta, eccellenza?». Quel­lo diventa rosso porpora, i funerali religiosi vengono conces­si. E don Luigi inserisce nella lista un altro – come dire – po­tente nemico curiale.
Il prete va ad abitare al terzo piano della casa albergo. Poi si trasferisce al tredicesimo di un grattacielo. Da solo prega, pro­getta e scrive il diario. «Ho l’impressione che, se rinunciassi all’idea, non mi salverei dall’inferno» ripete a se stesso, an­gosciato. Gli amici, forse per aiutarlo a uscire dal tunnel della tristezza, gli regalano un cane. Si chiama Igor, è un dalmata come tutti gli altri che arriveranno dopo di lui. Igor è uno sca­pestrato, prende da solo l’ascensore ed esce in cerca di cagnet­te. Quando torna è sporco, insanguinato, devastato. Tutti i suoi problemi sono ricreativi. Per don Luigi, l’allontanamento del cardinale Montini è motivo di tristezza: il suo silenzio è in­ dice di grande imbarazzo. Non vorrebbe più disturbarlo, ma il cappuccino Bentivoglio gli impone: «Ci vada, ci vada, anche se le viene il mal di pancia!».

Torni a fare il prete!

Così decide di ripresentarsi al suo cospetto per chiarire tutto. Lo fa il 19 ottobre 1961, scavalcando i suoi collaborato­ri. Gli parla, gli dice che «l’Opera è voluta da Dio, è di Dio. E io sono qui per servire Dio in quest’opera, di cui lei si è detto protettore». Ma adesso Montini è lontano, forse pensa al pa­pato e non può dare la benedizione a questo prete rivoluzio­nario e individualista che già tanti guai gli ha procurato. Co­sì risponde duro: «Lei tenta di blandirmi, lei vuol fare di testa sua. Se la sua è opera di Dio, allora io mi dimetto».
Un mese e mezzo dopo don Luigi ci riprova; c’è anche quel­la faccenda dell’incardinazione da risolvere. Ma Montini è an­cora più tagliente: «Basta. Torni a Verona a fare il buon prete!». Don Verzé non accetta la sconfessione, si ribella e replica: «Il mio sacerdozio si identifica con quest’opera di Dio. E lei non si assuma la responsabilità di impedirmelo. Un giorno, quan­do non avrà più quella porpora, saremo entrambi egualmente nudi davanti a Dio. E lei dovrà rispondere di aver combattuto un’opera di Dio». Montini, con le spalle al muro, ribatte defi­nitivo: «Lei insiste sul vescovo di Milano perché ne ha biso­gno. Lei parla di Provvidenza. A Milano, chiunque metta in piedi una pompa di benzina cava i soldi facilmente. Sono cose buone, ma sono laiche. Come laica è l’opera che lei sta realiz­zando. Torni a Verona a fare il buon prete».
È l’ora della solitudine. Don Luigi si confida con il suo con­fessore, padre Bentivoglio, che lo ascolta e ancora una volta gli dà un consiglio in controtendenza: «Il suo dovere è quello di andare avanti». Ha quarantadue anni, qualche amicizia, un crocifisso di san Carlo, un cane dalmata, una gran testardag­gine e la convinzione che l’Altissimo non lo abbandonerà mai. Tutti sanno che è inviso alla curia. E anche i fondatori dell’O­pera San Romanello (tranne il colonnello Faedda) si defilano a uno a uno. Ma lui, a Verona, non vuole tornare e neppure in congregazione desiderano rivederlo.
A Milano conta i nemici, ma una convinzione lo sorregge: quell’idea di ospedale sta entrando nel Dna della città. Marco Missiroli, direttore del «Corriere della Sera», annuncia in un articolo di fondo il Progetto faraonico e impossibile. Nono­stante gli ostacoli, qualcosa continua a muoversi. Perché, sot­tolinea oggi don Verzé, «nulla è più vero e più autentico dell’uomo che patisce e non vuole morire». Così decide di dare un nuovo impulso al Progetto, seguendo personalmente la pratica di riconoscimento dell’Associazione San Romanello come persona giuridica. La procedura è lenta, finché Faedda non carica don Verzé (prostrato per un attacco di artrosi) su un treno per la capitale. Così può seguire il dossier, salire e scendere scaloni, finché il 19 novembre 1962 vede la firma del presidente Giovanni Gronchi sul provvedimento. «Lo Stato è arrivato prima della Chiesa a recepire l’utilità di un centro di ricovero ospedaliero che fosse anche centro di ricer­ca e di studio, di previdenza e di assistenza sociale senza fini di lucro. Ero felice e al tempo stesso depresso, perché un’o­pera della Chiesa prendeva forma nonostante la Chiesa.»
Neppure il tempo di brindare, che all’orizzonte si materia­lizza un altro problema: il processo in Vaticano. Il secondo a Roma è un viaggio lampo. Il colonnello Faedda guida la Mercedes, don Verzé studia le carte coricato sul sedile posteriore. «In Vaticano mi ritrovo davanti due monsignori che mi interrogano per due ore sulle “quaestiones“. Fra quei marmi e quei soffitti mi sento un moscerino. I miei accusatori sono preoccupati solo dai rischi finanziari delle mie iniziative. Per questo dico loro: Credo nella Provvidenza. Se vuole ciò che io voglio, mi manderà ciò che occorre.» I due inquisitori si ri­tirano. Quando tornano, gli dicono due cose: «Non abbia paura di Montini» e «Di una cosa sola deve aver paura: il fal­limento. E, se fallisce, il giorno prima si compri una pistola e si spari. Oppure si butti dal quarto piano».
Con un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di so­spensione a divinis e con l’ultimo sublime consiglio in testa, don Luigi torna a Milano deciso a ripartire da zero. Obiettivo, quello di sempre: l’ospedale di Gesù che guarisce. Sfumato nel nulla il terreno di via Novara (il comune non glielo darà mai), viene a sapere dal suo amico don Giuseppe Del Corno che dalla parte opposta della città, fra Milano e Segrate, c’è un’immensa marcita-risaia di proprietà del conte Leonardo Bonzi. Don Luigi va a trovarlo e gli chiede 31.000 metri qua­drati. Il conte possiede 300 ettari e non è del tutto insensibile alla valorizzazione della zona. Soppesa la richiesta di don Verzé, poi spara la domanda decisiva: «I soldi ce li ha? Il prez­zo è 120 milioni». «Adesso no» risponde il prete. Bonzi di ri­mando: «Allora lei ha i pé frecc», ha i piedi freddi, cioè è senza una lira. Don Luigi non si dà per vinto: «Se gliene porto 10, fir­ma il compromesso?». «Sì.» La contessa Bassetti, ascoltato il progetto di don Verzé, gli dà i 10milioni in prestito e Bonzi fir­ma. Poi fa scegliere a quel singolare sacerdote il lotto sulla mappa e don Verzé punta il dito sul confine: 25.000 metri qua­drati a Segrate e 6000 a Milano. La Provvidenza ha scelto lì, a dispetto della curia, del comune, della Cariplo democristiana e dello stesso don Luigi che voleva San Romanello.
Il cardinale Montini sta per andare a Roma, sarà il succes­sore di papa Giovanni XXIII al soglio pontificio. Don Luigi gli chiede la benedizione. «Sarebbe un illuderla» è la rispo­sta. Il loro è stato un confronto fra caratteri forti. Oggi ricor­da il sacerdote: «Flagellandomi con durezza evitò di lasciar­mi in balia dei curiali. Mi friggeva senza bruciarmi. E mi aprì gli occhi su un certo atteggiamento ecclesiastico che non ave­vo potuto apprendere né da don Calabria, né dal cardinale Schuster. Sembrava che, nei giorni della grande polemica, lui sapesse che, se la mia era un’opera di Dio, Dio l’avrebbe sal­vata contro chiunque e anche contro me stesso. Infatti io so­no convinto che l’Opera sia di Dio soprattutto perché esiste nonostante me. Rileggendo questi diari scopro quanto voglio bene a Montini. Adesso ho capito: lui mi tratteneva per un braccio con una mano e con l’altra mi sculacciava. E lo faceva perché mi amava».
Dopo la partenza del futuro papa, la curia resta più acida che mai. Il nuovo arcivescovo, Giovanni Colombo, a incardi­nare don Verzé non ci pensa affatto. Gli uffici della curia lo proscrivono. Ma, il 16 giugno del 1961, per la prima volta, il sacerdote va a vedere quel luogo dove ora sorgono uno dei più moderni ospedali e uno dei centri di ricerca più avanzati del mondo. È il punto di partenza, è il momento di massima responsabilità dal giorno in cui decise di lasciare suo padre e la sua famiglia per entrare nella casa di un altro padre, don Calabria. «Il silenzio era immenso, solenne e desolato. C’era­no acquitrini a perdita d’occhio, qualche cascinale, stalle, con­cimaie, filari di pioppi. Pensai a quella risaia piena di rane co­me alla metafora di un’umanità abbandonata, in attesa di Dio che guarisce, Refa-El in aramaico. E proprio mentre meditavo queste cose davanti alla terra che avrebbe sostenuto il Proget­to, ho visto due anatre allungarsi improvvise dai ciuffi di riso sugli acquitrini e salire lente, percorrendo un arco, verso un punto indistinto nel cielo. Per un attimo le loro ali erano quel­ le dell’arcangelo Raffaele. Era il segno. Era il posto. Mi bastò”

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